La domanda del pediatraDa alcuni mesi seguo come pediatra la piccola Anna, nata da una coppia di genitori dopo una gravidanza frutto di fecondazione eterologa. Questa famiglia è stata una delle prime che fin dall'inizio del nostro rapporto professionale ha voluto rendermi edotto e partecipe della sua scelta: Elsa, la mamma, dopo i primi colloqui mi ha chiesto di parlare di una questione senza la presenza del marito, da lei definita "di importanza vitale". Difatti ha voluto confidarmi che la figlia è nata dopo continue ricerche di assistenza sanitaria, momenti da lei definiti "come si sta sulle montagne russe", un andirivieni di emozioni: speranze che si alternano a fallimenti. Finalmente la decisione della coppia di affidarsi all'estero a cure fisicamente gravose ed economicamente dispendiose: alla fine della chiacchierata ha tenuto a precisare che ritiene il marito ancora "indietro" nella metabolizzazione della vicenda. Quindi è nata Anna. La mamma come detto mi "inonda" di domande: Gianluca, quando dovrò dire ad Anna che il suo vero papà è un altro? Ci aiuterai, vero, a scegliere il momento e le parole giuste? Sai, io ho attraversato momenti complicati, ma ho tanta forza! Mentre riflettevo su come agire ho conosciuto Alessia, nata anch'ella da fecondazione eterologa, la cui mamma si trova nella stessa situazione emotiva della prima: la coppia è stata negli Stati Uniti. Il marito ha eseguito un intervento per cercare un qualche spermatozoo sano, ma il tutto è naufragato in un nulla di fatto. I medici avevano però preparato lei dal punto di vista ormonale e la coppia aveva a priori già accettato di buon grado una fecondazione eterologa, qualora l'intervento chirurgico del marito avesse dato esito negativo, come poi è stato. Nella seconda coppia entrambi i genitori al primo appuntamento già mi chiedono come parlare alla bimba dell'evento e dei relativi strumenti comunicativi. Entrambe le famiglie hanno creato dentro di me una tempesta di idee, molte delle quali in contrasto tra loro. Io mi sento di dover sostenere le due situazioni, in primis dal punto di vista emotivo. Ma ho tante domande: qual è il ruolo del pediatra in questo cammino di vita? Devo entrare per forza in queste dinamiche familiari? E come? Con entrambi i genitori? Quali strumenti devo adottare? E non parlo solo di strumenti comunicativi: mi si chiede di esplorare un mondo che non è il mio, che non ho studiato, e di toccare tasti così intimi e temo di sbagliare... D'altronde non voglio dare l'impressione di essere asettico, superficiale o addirittura "allergico" alle richieste di aiuto delle famiglie: per tenere i nostri canali comunicativi aperti con esse dobbiamo sforzarci di superare le nostre am-bivalenze anche riguardo a scelte di campo così intime e personali.