Background: Percutaneous procedures have been used recently to treat insertional Achilles tendon problems. The present study reports our results of this treatment approach. Methods: Patients undergoing percutaneous calcaneoplasty for insertional Achilles tendon problems were retrieved. Patients completed the visual analog scale (VAS) for pain and the Victorian Institute of Sports Assessment–Achilles (VISA-A) questionnaire before the operative procedure and at the last follow-up. At the last follow-up, we asked the patients whether they were completely satisfied, moderately satisfied, or unsatisfied after the procedure. Complications were also recorded. Results: A total of 27 patients were enrolled. The average follow-up was 26.5 months (range 6-68). The mean age of patients was 56.2 years (24-82). The mean VAS score before surgery was 8.1 ± 0.9 decreasing by the last follow-up to 2.4 ± 2.3 ( P < .0001). The mean VISA-A score improved from 20.7 ± 5.4 to 75.7 ± 25.5 at last follow-up, an improvement of 55% ( P < .0001). At the last follow-up, 84.5% (22 of 27) patients were completely satisfied with the procedure, 7.4% (2 of 27) moderately satisfied, and 11.1% (3 of 27) were not satisfied. These last 3 patients presented recurrence of symptoms, requiring revision surgery. Conclusion: For the selected patients, we found percutaneous calcaneoplasty to be an effective treatment for insertional Achilles tendon problems Level of Evidence: Level III, retrospective study.
La chirurgia del piede ha acquisito negli ultimi anni un ruolo di sempre maggior rilievo in ambito ortopedico, non solo alla luce dell'evoluzione delle tecniche e degli strumentari ma anche in virtù di un approccio innovativo che considera tale struttura un capolavoro d'ingegneria "spaziale", capace di assorbire e smistare le forze sui piani spaziali [1]. La moderna tendenza all'utilizzo delle tecniche chirurgiche mini-invasive trova ragione nel tentativo di risolvere o perlomeno ridurre alcune delle problematiche connesse al tradizionale approccio della chirurgia open, quali la durata dei tempi operatori, l'incidenza delle complicanze, la rapidità del recupero riabilitativo e la riduzione globale del periodo di convalescenza [2]. La prima esperienza di chirurgia mini-invasiva del piede fu proposta nel 1945 per opera di Morton Polokoff mentre i primi corsi di formazione risalgono agli anni '70 presso il College of Podiatric Medicine della Pennsylvania [3]. All'inizio degli anni '80, tuttavia, Stephen Isham descrisse tecniche mini-invasive per il trattamento dell'alluce valgo e delle deformità delle dita minori, basandosi su criteri fisiopatologici e su strategie chirurgiche finalizzate alla messa a punto di osteotomie stabili e capaci di fornire risultati clinici soddisfacenti [4]. Nel 1985, New ha descritto una tecnica percutanea per la correzione dell'alluce valgo; questa tecnica è stata poi ripresa e sviluppata da Peter Bosch, che propose l'esecuzione di osteotomie che prevedevano il posizionamento di un filo di Kirschner di stabilizzazione in modo completamente percutaneo e mini-invasivo [5]. Nel corso degli anni '90, infine, Mariano de Prado ha non solo espanso le indicazioni ma soprattutto sviluppato e modificato l'opera di Isham, diffondendo interesse e rappresentando un punto di riferimento per tale innovativo approccio alle patologie del piede [6]. La chirurgia mini-invasiva si esegue mediante incisioni cutanee minime attraverso le quali sono effettuati gesti chirurgici analoghi a quelli delle tecniche open. Per questo motivo deve essere eseguita da chirurghi esperti e con un background consolidato in chirurgia tradizionale, poiché richiede un'adeguata curva di apprendimento [7].La chirurgia percutanea, invece, nonostante sia racchiusa nel concetto stesso di chirurgia mini-invasiva, prevede una correzione delle deformità a cielo chiuso, senza l'esposizione del piano osseo e dei tessuti circostanti e, soprattutto, senza l'utilizzo di mezzi di sintesi; la contenzione delle osteotomie è quindi affidata al bendaggio, il quale assume la valenza di una vera e propria fase dell'atto chirurgico [8]. L'evoluzione delle tecniche mini-invasive e percutanee e l'affinamento delle capacità del singolo chirurgo hanno permesso il trattamento della maggior parte delle patologie degenerative del piede e hanno reso questo tipo di metodica una valida opzione da affiancare alla consolidata chirurgia tradizionale. Tali tecniche utilizzano l'anestesia loco-regionale, il monitoraggio radiologico e si eseguono in regime di day-...
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La chirurgia mini-invasiva si sta espandendo in tutti i settori della chirurgia ortopedica: nella nostra divisione, ormai dal 2002, trattiamo molte patologie del piede con tale metodica. In questi anni non sono mancati confronti e scontri con colleghi che sostengono idee diverse. Pur consapevoli che la strada sarà lunga e avrà bisogno di lavori scientifici specifici, abbiamo ritenuto opportuno impegnarci in questo lavoro per poter far conoscere la tecnica e comprenderne le possibilità e i limiti. Alla luce della nostra esperienza, penso di poter affermare che non si vuol sostituire con tale metodica la chirurgia classica a cielo aperto, né si vuole dimostrare la superiorità di una rispetto all'altra; tuttavia, è possibile e va ricercato un dialogo tra i sostenitori delle due tecniche poiché sussiste un obiettivo comune: il ripristino di una "anatomia funzionale" e la restitutio ad integrum della biomeccanica del passo. Le tecniche mini-invasive vanno considerate come una ulteriore risorsa per i chirurghi del piede, richiedono però esperienza e una curva di apprendimento piuttosto lunga. La mancanza della visione diretta impone un'approfondita conoscenza dell'anatomia funzionale e del gesto chirurgico. La chirurgia mini-invasiva, nel rispetto delle giuste indicazioni, permette vantaggi considerevoli per il paziente (ripresa più precoce) e per la struttura (tempi chirurgici più brevi) che di certo non si esauriscono nelle piccole dimensioni delle incisioni cutanee. Da queste righe giunga un ringraziamento ai colleghi Gabriele Potalivo, ortopedico presso l'ospedale di Spoleto, Alessandro Amanti, ortopedico presso l'ospedale di Branca, e Andrea Farneti, ortopedico presso l'ospedale di Foligno che, con il loro impegno, hanno reso possibile questo lavoro. Un ringraziamento ai colleghi Luciano Ferrini e Carlo Farneti che come direttori, in periodi diversi, del reparto di Ortopedia dell'ospedale di Foligno hanno creduto nella chirurgia mini-invasiva e ci hanno quindi dato la possibilità di implementare le nostre conoscenze e di fare una proficua esperienza in periodi in cui eravamo pionieri. Un grazie di vero cuore va a tutti i colleghi che hanno contribuito alla stesura di questo volume scientifico.Infine, un ringraziamento va all'OTODI e, in particolare, al collega Carlo De Roberto che ha accolto la nostra proposta di curare codesto fascicolo e ai direttori scientifici de Lo Scalpello che hanno voluto affidarci questa piacevole fatica.
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