All'incirca trent'anni fa, John Clayton Fant ha definito il commercio romano del marmo "an improbabile phenomenon" 1 . È noto, infatti, che nell'Antichità il trasporto su lunghe distanze della pietra richiedesse considerevoli investimenti economici e logistici, risultando irrazionale in una regione come il Mediterraneo, dove materiali lapidei di buona qualità sono disponibili pressoché ovunque. Questa "irrazionalità" alimentava però il prestigio del marmo e delle pietre colorate, rendendole simboli di potere e ricchezza direttamente associati alla sfera imperiale. Sebbene gli imperatori romani non abbiano mai esercitato un monopolio assoluto sul marmo, è indubbio che le esigenze della committenza ufficiale abbiano impresso uno stimolo decisivo alla sua produzione e consumo 2 . Tale legame tra potere imperiale e utilizzo del marmo si rafforzò ulteriormente nel corso della tarda Antichità, in concomitanza con il declino dell'evergetismo privato. Tra il IV e il VI secolo, l'impiego di grandi quantità di marmo caratterizzò quasi esclusivamente i progetti edilizi promossi dagli imperatori o dai rappresentanti delle più alte gerarchie laiche ed ecclesiastiche. Non a caso, la scultura costantinopolitana, diffusa in località di particolare rilievo politico, strategico e religioso 3 , può essere utilizzata per ricostruire le relazioni tra la capitale e le province dell'impero 4 . È da questa prospettiva che il presente contributo intende analizzare la diffusione di questi materiali nell'Adriatico ( fig. 1), situandola nel contesto storico del V e VI secolo e riconsiderando il ruolo di Ravenna quale presunto centro di diffusione dei prodotti e dei modelli artistici elaborati a Costantinopoli. VENETIASe si escludono le spoglie della Quarta Crociata giunte nei territori della Serenissima a partire dal 1204, la Venetia ha restituito un numero limitato di testimonianze relative alla circolazione di marmi di origine costantinopolitana. Una parziale eccezione è rappresentata da Aquileia, città che pare avere mantenuto il proprio ruolo di caput provinciae oltre il sacco attilano, attirando l'attenzione delle autorità bizantine ancora all'indomani della guerra gotica 5 . Qui, tra i materiali di importazione più antichi si segnala un erratico capitello ionico in marmo di Thasos della fine del IV -inizi del V secolo, appartenente a una tipologia non altrimenti attestata nell'Adriatico, ma la cui esportazione UDC: 903.25:552.46
In Italia settentrionale i dati archeologici e Ie fonti scritte consentono di delineare 10 sviluppo degli altari in rapporto aile reliquie a partire della fine del N secolo. , Da un lata con la continuita del modello delloculo in terra to al di satta dell'altare a colonnine, diffuso dal VI allX secolo, nell'area centroalpina, dove il processo di cristianizzazione, pur iniziato precocemente, e occasionalmente, alia fine del IV; come suggerisce la vicenda dei martiri della Val di Non, si protrasse a lungo fino all'organizzazione ecclesiastica di eta carolingia. Dall'altro con i modelli di altari a cippo, con reliquie in nicchie interne, che, caratteristici dell'area ravennate, sembrano fornire i modelli per Ie esperienze tardolongobarde, nell'ambito di una tendenza, anch'essa gia presente a Ravenna nel VI secolo, alia moltiplicazione degli altari e alia costruzione delle cripte.
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